Negli ultimi anni, il crescente ricorso a soluzioni di cifratura integrate nei sistemi operativi ha reso l’analisi forense dei dispositivi digitali un’attività sempre più complessa. Tra queste tecnologie, BitLocker – il sistema di crittografia integrato nei sistemi Windows – è diventato uno dei principali strumenti di protezione dei dati per utenti privati, aziende e pubbliche amministrazioni.
Per il perito informatico forense, la presenza di BitLocker rappresenta spesso un punto critico: può impedire l’accesso ai dati in modo totale, oppure, se correttamente gestita, può offrire importanti informazioni sull’integrità del contenuto, sulla configurazione del sistema e sulle misure di sicurezza adottate dal soggetto indagato.
In questo articolo approfondiremo nel dettaglio il ruolo di BitLocker all’interno delle attività peritali e delle consulenze tecniche in ambito giudiziario.
Cos’è BitLocker e come funziona nei sistemi Windows
BitLocker Drive Encryption, comunemente noto come BitLocker, è una tecnologia di cifratura sviluppata da Microsoft e integrata nelle versioni professionali ed enterprise del sistema operativo Windows. La sua funzione primaria è quella di proteggere i dati memorizzati su dischi rigidi o SSD mediante la cifratura dell’intero volume, rendendo il contenuto inaccessibile a chiunque non sia in possesso delle credenziali di sblocco.
A differenza di strumenti di cifratura di terze parti, BitLocker opera a livello di volume, ed è strettamente integrato nel sistema operativo e nei servizi di sicurezza di Windows. Una volta attivato, BitLocker utilizza algoritmi di crittografia avanzati, come AES con chiavi a 128 o 256 bit, per proteggere ogni settore del disco, impedendo la lettura anche in presenza di accessi diretti via hardware o mediante sistemi di boot alternativi.
Modalità di autenticazione e sblocco
BitLocker supporta diverse modalità di autenticazione, ognuna con caratteristiche tecniche e implicazioni forensi differenti. Le principali sono:
- TPM only: utilizza il Trusted Platform Module per custodire la chiave di sblocco; non richiede input dell’utente al boot, ma è vulnerabile a determinati attacchi in presenza del dispositivo acceso o in modalità sospensione.
- TPM + PIN: aggiunge un ulteriore livello di sicurezza, richiedendo un codice alfanumerico prima dell’avvio.
- TPM + USB key: la chiave di sblocco è contenuta in un dispositivo USB, necessario al boot.
- Password o smart card: adottate più raramente, soprattutto in ambienti aziendali o con policy di sicurezza elevate.
Ogni configurazione ha impatti diretti sull’accessibilità dell’evidenza informatica e sulle possibilità di acquisizione da parte del perito.
Le problematiche peritali in presenza di BitLocker
Quando un perito informatico si trova di fronte a un dispositivo cifrato con BitLocker, l’intero impianto metodologico dell’acquisizione forense viene messo alla prova. La crittografia a livello di volume impedisce infatti l’accesso diretto ai dati, e rende impossibile l’acquisizione bit-a-bit tradizionale del contenuto del disco, salvo che non si disponga delle chiavi di sblocco.
Il rischio è duplice: da un lato, non acquisire correttamente i dati, e dall’altro violare le buone pratiche forensi, compromettendo la validità probatoria dell’evidenza digitale.
Assenza delle credenziali: evidenza inaccessibile
Il caso più critico si verifica quando il dispositivo è spento e non si dispone delle credenziali di sblocco né delle chiavi di recupero. In questi scenari, non è possibile accedere né al contenuto del file system né a settori significativi del disco. L’immagine forense ottenuta in tali condizioni conterrà esclusivamente dati cifrati, non interpretabili né utilizzabili in sede peritale.
Per questo motivo, l’identificazione della presenza di BitLocker dovrebbe essere parte integrante della fase preliminare di qualsiasi analisi, anche prima della redazione dell’avviso di accertamento tecnico irripetibile, ove previsto.
Dispositivo acceso o in sospensione: finestra operativa
Se invece il dispositivo si trova acceso o in modalità di sospensione (sleep), è possibile che le chiavi di decifratura siano ancora memorizzate nella RAM o attive nella sessione corrente. In questo contesto, è fondamentale agire tempestivamente: operazioni forensi basate su live acquisition possono consentire l’estrazione dei dati attraverso strumenti come Magnet RAM Capture, FTK Imager, Belkasoft Live RAM Acquisition Tool o simili.
Tuttavia, l’utilizzo di tecniche di live analysis introduce nuove problematiche: il rischio di alterare lo stato del sistema o di eseguire comandi che incidano sulla memoria volatile può compromettere la catena di custodia. Serve quindi un bilanciamento tra l’urgenza operativa e il rispetto dei principi di non alterazione, documentazione e ripetibilità.
Acquisizione a disco sbloccato: soluzioni pratiche
Quando si ha accesso al dispositivo già avviato con BitLocker sbloccato, è possibile effettuare un’acquisizione forense “tradizionale” del volume, trattandolo come un disco non cifrato. In tal caso, l’operatore potrà impiegare software di imaging forense come X-Ways Forensics, Cellebrite UFED, Magnet Acquire, FTK Imager, assicurandosi che l’acquisizione riguardi il volume decrypted on the fly.
È tuttavia buona prassi acquisire anche l’immagine fisica cifrata del disco, al fine di conservare lo stato originale dell’evidenza, utile per eventuali future perizie o verifiche difensive.
Tecniche e strumenti per la gestione forense di dischi cifrati con BitLocker
La presenza di BitLocker non rappresenta necessariamente una barriera insormontabile per l’analisi forense. In numerosi casi, soprattutto quando si agisce in fase di urgenza o con autorizzazione del soggetto titolare del dispositivo, è possibile ricorrere a strumenti specializzati per identificare e, in alcuni casi, recuperare le chiavi di sblocco, o comunque per acquisire i dati in modo strutturato e metodologicamente corretto.
Estrazione delle chiavi dalla RAM
In dispositivi già avviati o sospesi, le chiavi di decifratura utilizzate da BitLocker possono essere temporaneamente conservate in memoria volatile (RAM). In questo scenario, è possibile procedere con tecniche di live forensics mirate all’acquisizione della RAM, da cui poi tentare l’estrazione della Full Volume Encryption Key (FVEK) o della Volume Master Key (VMK).
Strumenti utilizzati:
- Magnet RAM Capture: consente di salvare l’intero contenuto della RAM su un dispositivo esterno in modo forense.
- Belkasoft RAM Capturer: ottimizzato per ambienti Windows, compatibile anche con BitLocker.
- Volatility Framework: uno dei più noti strumenti open source per l’analisi della memoria, con plugin per l’estrazione delle chiavi BitLocker.
Una volta ottenuta la RAM, l’analisi si concentrerà su pattern binari noti, specifici di BitLocker, e sull’uso di moduli dedicati che possano ricostruire le chiavi di cifratura.
Recupero di chiavi memorizzate localmente
In alcune circostanze, la chiave di ripristino di BitLocker può essere reperita:
- nei metadati di Active Directory, qualora il dispositivo sia parte di un dominio aziendale;
- nella cartella locale C:\Users[utente]\Documents, dove l’utente può aver salvato manualmente il file
.txt
con il recovery key; - in cloud account Microsoft, nel caso in cui l’utente abbia effettuato il backup automatico delle credenziali (frequente nei dispositivi personali con Windows 10 o 11 Home);
- all’interno di snapshot del registro di sistema o file di log che possono contenere GUID o frammenti riferibili al processo di attivazione BitLocker.
L’utilizzo di strumenti come Elcomsoft Forensic Disk Decryptor o Passware Kit Forensic può automatizzare parte di queste ricerche e, in alcuni casi, consentire il montaggio di immagini cifrate utilizzando le chiavi trovate in RAM o nei file system.
Attacchi a forza bruta e limiti legali
Sebbene esistano strumenti in grado di tentare l’accesso ai volumi cifrati mediante attacchi a dizionario o brute force, l’efficacia di questi metodi è limitata dalla robustezza dell’algoritmo AES e dalle policy di sicurezza del sistema (es. lunghezza PIN, presenza di TPM, ecc.).